Come abbiamo ricordato in una recente intervista sul tema dell’invecchiamento e dei lavori usuranti, riconoscere l’usura da lavoro significa ammettere “che il lavoro non è uguale per tutti, e che la vecchiaia da tutelare non è definita solo dall’età anagrafica. Significa riconoscere che esistono lavori che creano nel tempo differenziali di aspettative di vita e differenze nella capacità di lavoro delle quali il sistema previdenziale vuole farsi carico, garantendo a tutti il diritto a una condizione di riposo in stato di salute soddisfacente e una sicurezza economica equa a seconda delle diverse tipologie di lavoro”.
La medicina legale è la principale fonte dove trovare i concetti di usura da lavoro e di lavoro usurante in tema di valutazione previdenziale dell’invalidità pensionabile.
La normativa definisce ad esempio i lavoratori soggetti ad “usura particolare”, che sono occupati in ‘lavori per il cui svolgimento è richiesto uno sforzo psicofisico particolarmente intenso e continuativo condizionato da fattori che non possono essere prevenuti con misure idonee’ (D.Lgs. 374/1993).
Per comprendere meglio questo concetto “bisogna considerare la distinzione tra:
– usura fisiologica: “si intende quella correlata all’età e al fenomeno dell’invecchiamento naturale, quella che si ritrae in una normale attività lavorativa in condizioni ottimali e senza rischio, associando di fatto questo concetto a quello della senescenza”;
– usura patologica: “si intende invece la costatazione di una usura più breve di quella fisiologica (criterio cronologico-temporale) e/o una determinazione di usura maggiore rispetto alla norma (criterio quantitativo), indotta da dinamiche esterne al normale invecchiamento dell’individuo”. Ed è su questo secondo concetto che si concentra l’azione legislativa e l’attenzione medico legale in materia di lavori usuranti.
Bisogna poi distinguere l’usura dal lavoro usurante: infatti l’usura è “conseguenza di un lavoro usurante ed è danno biologico attuale, mentre il lavoro usurante è causa di danno biologico futuro (Fucci 2000)”. E il lavoro usurante comprende attività lavorative ‘con caratteristiche di particolare stress energetico o psichico, con modificazioni del bioritmo e turbe della ciclicità/alternanza della veglia e del sonno, con esposizione obbligata e non altrimenti bonificabile a variazioni climatico/ambientali, che esercitano i loro effetti negativi su una popolazione di lavoratori sani e malati con la stessa intensità’ (De Zorzi, 1996).
Nel 1991 l’Ires in accordo con l’Inca-Cgil ha indicato che ‘il lavoro usurante è quello che abbia almeno uno di questi caratteri: 1) impedisce il ripristino integrale delle energie in esso impiegate; 2) rende più precoce la vecchiaia; 3) espone ad aumentato rischio di infortuni per frequenze e gravità, anche in relazione al progredire dell’età; 4) espone ad agenti cancerogeni senza che siano adottate efficaci misure di prevenzione ambientale; 5) espone a rischi biologici capaci di causare malattie gravi per cui non sia disponibile una terapia’. (Ires 1991).
Sono state sollevate critiche a proposito di come la normativa sui lavori usuranti si “raffronta con il concetto di prevenzione”. In particolare in ambito giurisprudenziale, “il fatto di aver inserito il carattere di ‘non possibile prevenzione’ dei fattori usuranti ripara la legge dall’infrazione del Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sul lavoro. Tale testo infatti centralizza sulla prevenzione (cambio dell’organizzazione del lavoro, tecnologia in uso, cambio mansione, ecc…) qualsiasi evento che comporti un rischio per il lavoratore, pena la persecuzione penale e/o civile del datore di lavoro”.
Ma in quali casi “si può intervenire solo con un qualche beneficio pensionistico, e in quali invece si devono imporre cambiamenti radicali nelle singole lavorazioni individuate o agli assetti organizzativi”?
Difficile dare una risposta ben precisa su ciò, ma si ricorda anche l’importanza dei tempi di recupero: “un adeguato tempo di recupero e quindi di non esposizione alla mansione permette di non incorrere in ‘menomazioni’, a meno che non si superino delle soglie patologiche (differenti fra singoli individui)”. E quindi, almeno per alcune lavorazioni, “è la presenza oppure no di adeguati tempi di recupero che fa sì che una data mansione sia definibile come usurante.
Dal punto di vista degli aspetti preventivi, dunque, la leva del tempo di esposizione alla mansione sembra essere quella principale da manovrare, a seconda dei vari aspetti e delle politiche che si vogliono considerare”.
E come indicano alcuni ricercatori “il futuro deve prevedere un doppio binario di azione: da un lato, un’azione tecnologica (da parte delle imprese) e sociale (da parte delle istituzioni) per migliorare le condizioni di lavoro e per restringere il divario nelle condizioni di salute determinato dalle diseguaglianze socio economiche”.
Ad esempio una facile misura da adottare “potrebbe essere quella di allargare l’obbligatorietà della sorveglianza sanitaria permanente per le mansioni usuranti già definite per legge, dato utile anche al solo scopo di monitorare costantemente la salute dei lavoratori esposti.
Sarebbe inoltre utile sviluppare:
– “un sistema di politiche che puntino ad un riassetto organizzativo e produttivo per alcuni settori e mansioni”;
– misure che prendano in considerazione le ‘politiche di attivazione’ in ottica di sistemi complementari (o sostitutivi) al prepensionamento classicamente inteso, politiche che non siano incentrate soltanto sulla riduzione della spesa previdenziale”.
E misure di ordine organizzativo “sono oggi di più facile applicazione in alcuni settori, in cui la flessibilità organizzativa e la qualità (ad esempio: just in time, world class manufacturing) sono diventate caratteristiche dirimenti per reggere la competizione internazionale”.
Si indica inoltre che se il sistema produttivo risponde ai problemi dell’usura e della compatibilità lavorativa “servendosi in modo inadeguato di misure nate per altre ragioni (mobilità, cassa integrazione, prepensionamenti)”, bisogna agire anche “attraverso un concerto di politiche di welfare attive, oltre a mantenere quella passiva del prepensionamento”.
In questo senso utili politiche a cui riferirsi “potrebbero essere quelle del work ability, dell’ age management, della riqualificazione professionale e rilancio del know how del singolo lavoratore, della mobilità fra lavori diversi. L’age management, ad esempio, guarda alla gestione del lavoro rimodulandola in base al corso della vita e delle risorse, al momento in cui i cambiamenti sono causati dal processo di invecchiamento. I giovani necessitano di una gestione che supporti e migliori la loro situazione, mentre i più anziani hanno bisogno di altre soluzioni per mantenere la loro capacità di lavoro (Ilmarinen 2012)”.
Tiziano Menduto
Fonte: Punto Sicuro
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